La Corte internazionale dell’Aia
accoglie il ricorso del figlio di un milite della Repubblica sociale
assassinato senza processo dai partigiani comunisti. Chiede giustizia per altri
400 caduti.
La malinconica profezia espressa
da Piero Buscaroli nel suo bel libro, Dalla parte dei vinti (Mondadori) secondo
la quale la memoria degli sconfitti del 1945 sarebbe stata per sempre
condannata all’oblio non si avvererà.
Luis Moreno Ocampo, procuratore
capo della Corte penale internazionale dell’Aia ha accolto la domanda che
chiede l’apertura di un’inchiesta per la morte di Lodovico Tiramani (milite
scelto della Guardia nazionale repubblicana) e di altri quattrocento appartenenti
alla Repubblica sociale, trucidati dalle bande partigiane. L’ipotesi di reato è
genocidio. Il Tribunale dell’Aia ha risposto così al figlio di Tiramani,
Giuseppe, che, attraverso la consulenza del suo legale Michele Morenghi, ha
chiesto l’apertura del procedimento tramite una memoria dove si sostiene che:
«Mio padre fu prelevato nei pressi di casa sua a Rustigazzo nel piacentino nel
luglio del ’44 da un gruppo partigiano della brigata Stella Rossa, fu
processato e condannato a morte senza un giudice, senza un comandante
partigiano e senza una sentenza a verbale. Fu fucilato poche ore dopo nei
pressi del Monte Moria. Mia madre lo trovò crivellato di colpi. Io non voglio
vendette, ho già perdonato tutti coloro che uccisero mio padre, abitavano nel
mio paese e li ho conosciuti personalmente dopo la guerra. Chiedo sia fatta
giustizia per il suo caso e per tutti gli altri combattenti della Repubblica
sociale uccisi in quegli anni nel piacentino».
In questo modo, l’International
Criminal Court, la cui competenza si estende a tutti crimini più gravi che
riguardano la comunità internazionale, come il genocidio appunto, i crimini
contro l’umanità e i crimini di guerra, potrebbe intervenire su una vicenda
italiana che per tanti decenni è rimasta volutamente occultata dalla
storiografia
ufficiale ed è sopravvissuta solo
grazie alla memoria dei sopravvissuti. Fino alla comparsa dei libri di
Giampaolo Pansa (un grande giornalista che sa bene di storia), quanti italiani
conoscevano le tristi vicende della caccia al repubblichino, che si aprì dopo
il 25 aprile 1945 per protrarsi fino al 1946 e al 1947? Pochi, pochissini.
Soltanto i parenti delle vittime o quanti di noi avevano un amico, un
conoscente che visse personalmente quella tragedia. A me capitò di avere questa
triste «fortuna» e di apprendere dell’uccisione di un proprietario agricolo
dell’Emilia, fucilato insieme al nipote dodicenne, con l’accusa di vaghe
simpatie fasciste; della morte di un contadino del bellunese fatto fuori dopo
aver rifiutato di vettovagliare una banda partigiana; e del linciaggio di
alcuni giovanissimi «ragazzi di Salò» che ora giacciono interrati nel Campo X
al cimitero di Musocco a Milano. Ma di tutto questo fino a pochissimo tempo fa
neanche un rigo sui libri di storia e ancora oggi nessun accenno nei manuali di
scuola che vanno in mano ai nostri giovani.
Eppure autorevoli testimoni di
quella guerra fratricida, che si trasformò in tiro al piccione, sapevano.
Sapevano e tacquero. Benedetto Croce, ad esempio. Dalla lettura dei Taccuini di
guerra del vecchio filosofo, editi solo nel 2004, emerge con forza il timore
che la guerra partigiana possa trasformarsi in una rivoluzione
«comunistico-socialista», che, in breve, avrebbe consegnato l’Italia a un altro
totalitarismo, forse più spietato, come andava dimostrando con abbacinante
chiarezza la «liberazione» di Polonia, Ungheria e degli altri paesi danubiani e
balcanici, operata dalle truppe sovietiche, coadiuvate dalle formazioni
partigiane comuniste. La rivelazione della strage di Katyn, avvenuta da parte
dell’Armata Rossa, tra marzo e maggio del 1940, confermava in Croce questo
timore, quando anche in Italia si era appreso dell’«eccidio fatto dai russi di
migliaia di ufficiali polacchi, che erano loro prigionieri». La minaccia di una
sovietizzazione imposta con la violenza, scriveva il filosofo, si avvicinava
anche al nostro paese. Era già attiva nelle regioni orientali esposte alle
violenze delle «bande di Tito». La si scorgeva serpeggiare nella gestione
dell’epurazione antifascista delle strutture statali «maneggiata dai commissari
comunisti» che tentavano di attuare «un’infiltrazione del comunismo»,
perpetrata «contro le garanzie statutarie, conto le disposizioni del codice,
per modo che nessuno è più sicuro di non essere a capriccio fermato dalla
polizia, messo in carcere, perquisito».
Tutto questo avveniva, in
ossequio alla «rivoluzione vagheggiata e sperata». E sempre in ossequio a quel
progetto eversivo, le regioni settentrionali dell’Italia, controllate dagli
elementi estremisti del Cnl, divenivano il teatro di stragi di massa contro
fascisti, ma più spesso contro vittime del tutto innocenti. L’8 agosto
1945 la famiglia Croce riceveva la visita di un conoscente «che ci ha commossi
col racconto del fratello incolpevole, non compromesso col fascismo, ucciso con
molti altri a furia di popolo a Bologna». Nella stessa pagina del diario, si
annotava: «In quella città gli uccisi sono stati due migliaia e mezzo, tra
questi trecentocinquanta non identificati».
Tra il vero antifascismo e
resistenza si scavava, con questa testimonianza, un abisso profondo. Si alzava
uno steccato, che soltanto la costruzione di una memoria contraffatta di quegli
anni terribili ha potuto per molto tempo celare.
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di Eugenio Di
Rienzo - 12 marzo 2010, 09:31