TRA LE TANTE LETTURE/ARTICOLI A RIGUARDO DELLA RIVOLUZIONE UNGHERESE QUESTO É MOLTO INTERESSANTE....
Marzio Pisani
Ungheria’ 56: una verità scomoda
La cornice storica
recente – La cronaca di quei giorni – Budapest ’44-’45: l’olocausto di una
città

Tutta la storiografia contemporanea, relativa sia ai
decenni postbellici sia alla Seconda Guerra Mondiale col ventennio che la
precede, è, palesamente, una storiografia di parte. Essa è infatti ancora del
tutto allineata alle tesi di comodo elaborate, verso la fine del conflitto e
subito dopo, dagli Uffici Propaganda politico-militari delle potenze vincitrici
alla luce dello spirito di Yalta. A mascherare o far dimenticare la
unilateralità delle fonti e delle tesi, serve l’apparente divaricazione fra i
due maggiori vincitori e fra le loro — per così dire — «scuole di pen¬siero».
Si presenta una facciata esteriore di confronto dialettico e di aspro scontro
di opinioni per indurre all’ingannevole convinzione che la discussione sia
completa — che copra cioè tutti i 3600 dell’angolo circolare di ricerca della
verità — ma, soprattutto, che essa sia libera.
Si tratta di una palese mistificazione, giacché
entrambi gli interlocutori appartengono allo stesso schieramento storico:
quello dei vincitori. Perchè libera ricerca di verità vi fosse, sarebbe
necessario che la discussione, sulla stampa e sullo schermo, avvenisse tra
vincitori da una parte e vinti dall’altra.
Questa condizione elementare di imparzialità nella
ricerca storica dei fatti e delle idee non è mai stata rispettata. Chi ha
ricercato e scritto dalla parte dei vinti, o anche semplicemente con intento di
oggettività, è condannato a restar fuori dai grandi canali di distribuzione
editoriale e non ottiene mai spazi televisivi ancorché minimi: di fatto, egli
deve operare in una sorta di «clandestinità legale». Come diceva Ezra Pound, la
libertà di parola è niente, senza un microfono alla B.B.C.
* * *
Ma se la serie infinita di orchestrate menzogne, omissioni, esagerazioni e
distorsioni rappresenta una vergognosa prostituzione della cultura attuale al
prepotere dei vincitori — una vera e propria «malattia morale» della nostra
epoca con la quale i più si sono adattati a convivere — l’ultima macchinazione
stonio-grafica, armata in questi mesi sulla rivolta ungherese del ‘56, grida
veramente vendetta al cospetto della verità e non può essere passata sotto
silenzio da qualunque uomo ancora veramente libero. Vediamo dunque brevemente
qual è la addomesticata versione dei fatti che tentano di propinarci, ed
andiamo poi invece a vedere più a fondo quel che accadde in verità.
* * *
Come se mille altoparlanti si fossero messi a diffondere insieme la voce di un
unico speaker, tutti i portavoce del sistema — storiografi, politologi e
gazzettieri — ci ammanmscono una identica interpretazione degli eventi: la
rivolta di Budapest fu una questione interna socialista, una sorta di guerra
civile fra comunisti riformisti e comunisti stalinisti. il popolo prese le armi
e sparò, certo, ma so¬lo sui comunisti cattivi. Quelli buoni anzi, li volle con
sè: non erano forse comunisti i governanti che emersero dalla rivolta, che
chiesero l’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia, e che vennero infatti
alla fine arrestati dai Sovietici e poi fucilati dal ristabilito ordine
socialista? Nagy, per esempio. Egli fu l’eroe, il capo-popolo, e poi il
martire. Ed era un comunista. Disciplinato, fedele, osservante. Sempre stato un
comunista perfetto. Però era uno dei buoni. Quindi se ne chiede oggi la
«riabilitazione». E poichè ancora si nasconde al mondo il luogo della sua
sepoltura, gli zeloti della democrazia firmano petizioni al mondo comunista
dell’Est perchè esso si penta e consenta sulla sua tomba pellegrinaggi di
amanti del socialismo.
In altre parole, i Sovietici sono accusati non tanto di aver massacrato a
migliaia gli Ungheresi, quanto di non aver capito lo «spirito» di quella
rivolta, che era intesa soltanto a liberare il socialismo ungherese di capi
incompetenti e brutali proprio perchè il fiore del socialismo «vero» potesse
sbocciare più puro. Fu solo per questo, e per far capire al Cremlino che i suoi
proconsoli a Budapest lo rappresentavano male, che gli Ungheresi affrontarono
le divisioni corazzate sovietiche. Si trattò quindi, in fondo, di un grossolano
errore tecnico di Mosca, di una sorta di «svarione» storico, forse favorito
dall’ingenuità degli eredi di Stalin, ancora un po’ inesperti, forse, ma
sicuramente amanti del progresso, della pace, e di tutti i popoli della terra —
in particolare di quello ungherese, costituito da onesti lavoratori socialisti
come loro.
* * *
Si tratta, trasparentemente, di una storiella che non regge. Imre Nagy, nel suo
primo discorso a rivolta appena iniziata, definisce provocatori i rivoltosi.
Poi, firma la legge marziale e la richiesta di intervento militare sovietico.
Quando, dal Parlamento, si rivolge all’immensa folla dei manifestanti
chiamandoli «compagni», «Non siamo compagni» — inveisce il popolo di Budapest.
Che abbatte la statua di Stalin, attacca le sedi del Partito Comunista, strappa
falce e martello da tutte le bandiere ungheresi: da allora, la bandiera
nazionale è un tricolore con un buco in mezzo. Ben strani comunisti riformisti,
che non chiedono affatto riforme, ma la cacciata dei Sovietici, lo scioglimento
del Partito Comunista, e la liberazione del Cardinale Midszenty. Che se la
prendono con gli agenti della polizia segreta, col Patto di Varsavia, con gli
ebrei. Che contro le bandiere rosse combattono con accanimento feroce, con
disperato eroismo, con odio implacabile.
E allora perchè la storiografia ufficiale del Sistema — anzi tutta
1’«intellighenzia» occidentale — si sforza oggi di darci a bere la fòla di un
popolo di rossi che si rivolta ad un governo rosso e si batte contro l’armata
rossa? Innanzi tutto perchè le sarebbe ancora più difficile, anzi impossibile,
darci a bere l’altra fola: quella cioè di un popolo di democratici che si
ribella in nome delle libertà individuali e partitiche.
* * *
Certo, il primo nucleo dei manifestanti era costituito di universitari — figli
prediletti del regime rosso — che chiedevano libertà civili e politiche. Ma
subito il loro corteo — come se il popoìo fosse da tempo in attesa di un
pretesto, di una scintilla, di un segnale — fu ingrossato, sommerso, ingoiato e
poi lasciato indietro da una massa popolare dieci o venti volte più numerosa,
che non chiedeva riforme e libertà civili per gli individui, ma la Libertà per
la Nazione ungherese. E il guaio è che, per tutta la durata della rivolta, ben
pochi furono gli striscioni che inneggiassero alla democrazia, all’Occidente,
ai suoi valori. Solo alla Patria Magiara, alle terre strappatele dai vincitori,
agli eroi della tradizione nazionale inneggiavano le masse in rivolta, gli
operai e i contadini in armi, i giovani che sfidavano i carri.
In un’ottica democratica e progressista i conti quindi non tornano: uno dei
dogmi della cultura corrente stabilisce che il popoìo, per definizione, possa
esse¬re soltanto o democratico o socialista. Tentium non datur. Un secondo
dogma afferma che ogni cambiamento è possibile, legittimo, e magari anzi
auspicabile, purché esso avvenga all’interno del sistema e gli sia funzionale
e, soprattutto, purchè esso non turbi l’Ordine di Yalta.
Bisognava quindi, i conti, farli tornare in qualche
modo. La prima trappola tesa dalla storiografia ufficiale alla intelligenza e
alla verità è quella di analizzare, ricostruire e raccontare la rivoluzione di
Budapest come singolo «fatto di cronaca», del tutto avulso dal contesto generale
della storia del popoìo magiaro. La seconda trappola è quella di gettare la
luce dei riflettori su di un solo angolo di quella immensa ribalta accesa di
mille passioni e agitata da mille forze: l’angolo nel quale, attorno a un
tavolino, giocavano le loro carte della fedeltà a Mosca gli uomini del Partito,
staliniani o moderati o revisionisti, così da lasciare in ombra
— e quindi fuori storia — il popolo primattore. Tutto veniva giocato fra
Rakosi, Gerò, Nagy, e, al massimo, Maleter — che però con quella sua passione
per le armi e per le uniformi di sapore un po’ prussiano, impersonava una
figura di comu¬nista quanto meno ambigua. Gli altri — il popolo, i giovani, i
militari, che invece di sparare sui rivoltosi sparavano sui Sovietici, i preti
cattolici o luterani o orto¬dossi che benedicevano le bandiere col buco, i
contadini e i sottoproletari che davan la caccia ai comunisti — tutti gli altri
non contano nulla, e meritano al mas¬simo un flash o un fotogramma, ma non
certo i riflettori da primo piano. Di queste trappole la verità è preda facile,
ed il popolo d’Ungheria — tradito e massacrato ancora una volta — è la vittima
sacrificale.
E così è ormai approvata, sancita e canonizzata la versione ufficiale: la
rivolta di Budapest fu una questione interna al sistema, una faida fra
socialisti, un tra¬gico sciagurato affaire mal gestito dalla troika moscovita
orfana recente di Stalin.
La cornice storica
recente
Se si vuole interpretare un evento come quello della rivolta di un intero
popolo, non si può farlo senza inquadrare i fatti nella loro dinamica storica —
quantomeno riferita agli ultimi decenni. E i precedenti storici ci dicono, in
breve, che quello ungherese fu il popolo che insieme a quello croato, a quello
tedesco e ai popoli baltici — combattè con maggiore accanimento e
determinazione fino alla fine, e che esso non conobbe praticamente alcun reale
fenomeno di resistenza popolare antifascista — eccezion fatta per piccoli
nuclei comunisti, guidati da Laszlo Rajk rientrato in Patria da Mosca e
sostenuti da ambienti ebraici. Inesistente fino al 1944, per ammissione della
stessa storiografia marxista, la Resistenza ungherese fu soltanto un insieme di
velleitarismi, fallimenti e piccole azioni di scarsa importanza senza alcun
supporto popolare. Quando le armate tedesco-magiare dovettero abbandonare
all’Armata Rossa la terra ungherese difesa palmo a palmo, 800.000 Ungheresi —
su circa dieci milioni di abitanti! — lasciarono la Patria per continuare la
lotta in Austria e in Germania, o comunque per non sottostare al regime dei
vincitori. Non a caso, da amici e nemici, l’Ungheria venne definita «il più
fedele alleato della Germania».
Il prezzo pagato dalla nazione ungherese per tener fede all’alleanza con l’Asse
e porsi come uno degli ultimi bastioni difensivi dell’Europa centrale contro la
marea sovietica, fu spaventoso: si contarono 400.000 morti fra combattenti e
civili, decine di migliaia di feriti, mutilati e invalidi, più l’immensa
fiumana di profughi che aveva lasciato il Paese insieme ai Tedeschi. L’U.R.S.S.
si annetteva la Rutenia Subcarpatica, e similmente tutti gli altri territori
magiari recuperati pochi anni prima tornavano a far parte di Cecoslovacchia,
Romania e Jugoslavia. Su queste terre strappate alla Madrepatria si impose un
vero e proprio programma di smagiarizzazione con stragi, deportazioni ed
espulsioni. Ciò che restava dell’Ungheria era devastato dalla guerra: il
sistema dei trasporti era solo l’ombra di quel che era stato pochi anni prima,
le perdite nel settore dell’allevamento oscillavano dal 60% del bestiame bovino
all’8 1% degli ovini; circa un terzo delle attrezzature agricole era andato
distrutto. La nuova Ungheria democratica, «liberata» dall’Armata Rossa, si
impegnò inoltre a pagare 300 milioni di dollari a U.R.S.S., Jugoslavia e Cecoslovacchia
in conto riparazioni di guerra.
fl processo di comunistizzazione del Paese passava attraverso una fase iniziale
che prevedeva l’instaurazione della democrazia. La cosa imbarazzante era che,
di tutti i partiti ungheresi, solo quello comunista poteva vantare un passato
di «resistenza» mentre gli altri — socialdemocratici inclusi — avevano
collaborato con il regime hortysta fino al 1944 accettando, tra le altre cose,
l’alleanza con l’Asse e la «crociata» contro l’Unione Sovietica. Si decise
quindi di considerare legali anche quei partiti i cui dirigenti avevano
cambiato bandiera solo negli ultimi mesi di guerra: socialdemocratici, Partito
Nazionale dei Contadini e — unico partito «di destra» — i «Piccoli
Proprietari». La tecnica dei comunisti fu quella di garantirsi subito una base
di massa, e il loro partito cominciò a gonfiarsi a dismisura: tra i nuovi
adepti figuravano numerosissimi ebrei — che, come si vedrà più avanti,
costituivano da sempre il nerbo del partito — e molti opportunisti che ben poco
avevano a che fare con l’ideologia del marxismo-leninismo. Non mancarono del
resto neppure coloro che erano effettivamente attratti dalla propa¬ganda
comunista, e che aderivano al partito in odio al tradizionale strapotere dei
proprietari terrieri aristocratici. Tra le prime iniziative prese dai politici
giunti a Budapest al seguito dell’Armata Rossa, figuravano le misure repressive
contro i fascisti e gli hortysti (esecuzioni, deportazioni, esclusione diritto
di voto per centinaia di migliaia di ungheresi) ed una riforma agraria che
eliminava il latifondo suddividendo la terra tra i contadini. Apparve subito
chiaro che questa riforma agraria veniva introdotta a puro scopo
propagandistico e demagogico: una ben più organica riforma in tal senso era già
stata introdotta dal regime nazionalsocialista delle Croci Frecciate, che da
sempre avevano teorizzato la trasformazio¬ne del proletariato agricolo magiaro
in una classe di piccoli proprietari, e che l’avevano attuata non appena
assunto il potere dopo il voltafaccia di Horty. Pretendere comunque che i
vincitori sovietici e i loro simpatizzanti locali riconoscessero che la tanto
attesa riforma era già stata varata dal regime nazionalsocialista di Szalasy,
sarebbe stato indubbiamente eccessivo. Del resto, il programma del regime
comunista prevedeva non il frazionamento ma la collettivizzazione delle terre:
negli anni seguenti infatti la piccola proprietà privata sarebbe stata
eliminata del tutto.
Ad ogni modo, la speranza dei comunisti di vincere le elezioni si rivelò
illusoria: i voti di tutti coloro che negli anni di guerra avevano sostenuto il
regime di Horty, o avevano simpatizzato per le Croci Frecciate o altri
movimenti fascisti, si riversarono sui Piccoli Proprietari che ottennero il 57%
dei suffragi (2.691.000 voti) contro il 17,4% dei Socialdemocratici (822.000
voti), il 17% dei comunisti (801.000 voti) e il 6,9% dei Contadini (323.000
voti).
Ciò che realmente contava però non era la percentuale di voti ottenuta da
questo o da quel partito, ma l’accordo raggiunto a Yalta tra le potenze
capitaliste e il comunismo staliniano per la spartizione dell’Europa. I
comunisti, protetti dalle forze d’occupazione sovietiche, procedettero quindi a
piazzare loro uomini nei posti-chiave dell’apparato statale, della burocrazia,
della polizia, dell’esercito. Gradualmente essi stesero un clima di terrore sul
Paese e dettero inizio ad una serie di nazionalizzazioni nei settori più
disparati: bancario, agricolo, industriale, dell’educazione — tradizionale
monopolio della Chiesa cattolica e delle confessioni religiose minori. Sul
piano politico si passò dalla democrazia pluripartitica ad un sistema a partito
unico — quello comunista — nel quale erano confluiti anche i socialdemocratici
e parecchi esponenti dei partiti borghesi («contadini» e piccoli proprietari).
ll partito si trasformò in un immenso apparato burocratico e,
contemporaneamente, in una nuova classe sociale di privilegiati. E di
fondamentale importanza tener presente che il sistema stalinista era
letteralmente dominato dagli ebrei. Già al tempo della «dittatura del
proletariato» del 1919 la dirigenza comunista era stata di fatto una
espressione ebraica (lo stesso Bela Kun — Abele Cohen — era ebreo e con lui la
maggioranza dei suoi collaboratori). Ora la storia si ripeteva: ebreo era il
capo del regime, Rakosi, nato Roth — forse il miglior allievo di Stalin al di
fuori dell’U.R.S.S. — ed ebrei erano i suoi collaboratori più potenti, come
Erno Gerò (nato Singer), Mildos Farkas (nato Wolf) Ministro della Difesa dal
Settembre 1948, e Jòzsef Révai massimo responsabile della propaganda del
regime. Ebrei erano molti degli intellettuali e delle alte sfere del regime, ma
anche dei dirigenti locali che rappresentavano l’infrastruttura del comunismo
ungherese: burocrati, ufficiali della polizia politica, funzionari. I risultati
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delle ricerche effettuate da sociologi americani tra gli Ungheresi fuggiti in
occidente dopo la rivolta sono illuminanti in proposito. Uno di questi
sociologi, Jay Schuiman, ha riconosciuto che «I capi comunisti erano visti come
ebrei da quasi il cento per cento della gente che abbiamo esaminato». Alcuni
brani di queste inter¬viste sono stati pubbblicati ed appaiono particolarmente
indicativi: « Tutti i posti chiave erano occupati da ebrei ... mi chiedevo perché
i cattolici e luterani non riuscissero ad ottenere questi impieghi. C’erano
molti ebrei a Pòpa, ma nessuno faceva lavori manuali e nessuna delle loro mogli
lavorava». (1) «I leader di queste cooperative (di Stato) erano sempre dei
Cohen e degli Schwanz». «È un fatto risaputo che gli ebrei sono politicamente
in primo piano». E ancora «quando sono tornati in Ungheria nel 1945, non
avevano un soldo e in un solo anno se la sono cavata molto bene. Non riesco a
capire come abbiano fatto ... Il regime appartiene a loro. Sono stati gli ebrei
a fan nascere la maggior parte dei problemi ungheresi. I contadini del mio
villaggio ritenevano che avessero aiutato i comunisti ad arrivare alpotere, e
pensavano che fossero il nucleo dirigente del comunismo. Non c’era un solo
ebreo rispettabile nel villaggio.»
ll sistema stalinista sviluppò la sua offensiva politica in diverse direzioni,
soprattutto per mezzo della A.V.H., la temuta polizia politica forte di 35.000
agenti e di una rete di informatori molto estesa. Nel solo periodo 1952-1955
vennero processati e condannati oltre 516.000 Ungheresi. Parallelamente, il
sistema comunista perseguiva una politica culturale mirante ad estirpare dalle
radici la cultura nazionale ungherese.
E importante notare, tuttavia, che in Ungheria si sviluppò una resistenza
anticomunista molto prima del 1956. Questa resistenza si sviluppò prima in
forma legale e semilegale e, successivamente, nella clandestinità. Alle
elezioni del 1947, prima dell’instaurazione del sistema a partito unico, si presentarono
ben 6 partiti di opposizione che «coprivano tutto lo spazio politico della
destra, fino a raggruppamenti completamente fascisti e appena mascherati» (2) e
che ottennero complessivamente oltre 2 milioni di voti, contro 1.800.000 voti
dei comunisti ed i 2 milioni dei partiti democratici che facevano parte della
coalizione governativa. Va ricordato, per inciso che 300.000 Ungheresi erano
stati privati del diritto di voto per i loro trascorsi fascisti, e che molte
centinaia di migliaia erano rifugiati all’estero. Tra questi ultimi, in
particolare, si costituirono organizzazioni politiche e paramilitari
patriottiche come la M.H.B.K., associazione internazionale dei veterani
ungheresi della 2a guerra mondiale, e nuclei di sopravvissuti delle Croci Frecciate
erano attivi tra gli esuli residenti in Europa Occidentale, in U.S.A., in
Canada. Oggi ancora si contano a decine le pubblicazioni di orientamento
fascista diffuse in queste comunità ungheresi nel mondo.
Anche nella stessa Ungheria, nonostante la repressione poliziesca,
sopravvivevano o si costituivano nuclei clandestini armati. Inoltre, le
ricostituite Forze armate ungheresi, comprendevano un buon numero di ex
combattenti del fronte dell’Est, fra i quali non aveva mai fatto presa alcuno
spirito di cedimento o di titubanza ideologica nella determinazione a battersi
fino in fondo.
Certamente questi sopravvissuti del regime di Horty, insieme ai superstiti
delle Croci Frecciate e agli altri nazionalisti in Ungheria o all’estero,
difficilmente avrebbero potuto giocare un ruolo determinante se non fosse stato
per la crisi, profonda e irreversibile, che attanagliava il partito e il regime
comunista. I funzionari di partito rappresentavano infatti una nuova classe
privilegiata, che a sua volta attirava con la promessa di vantaggi sociali ed
economici una massa enor¬me di opprtunisti o, più semplicemente, di comuni
cittadini che cercavano solo di evitare guai nascondendosi dietro una tessera.
Questo spiega perchè, nei giorni della rivolta, migliaia di iscritti al partito
non esitarono a bruciare le bandiere rosse ad abbattere i simboli dello stato
socialista, a combattere e a morire nella lotta contro l’Armata Rossa. Alla
vigilia dell’insurrezione il partito, nonostante le purghe e le espulsioni di
massa degli anni precedenti, contava 800.000 iscritti. Nei giorni della rivoltà
esso rimase del tutto inerte, dissolvendosi sotto l’urto degli eventi; e quando
si ricostitui, dopo il ritorno in forza dell’Armata Rossa, giunse a contare
soltanto 200.000 aderenti. I risultati di questo fenomeno di elefantiasi furono
una crescente burocratizzazione ed una totale ed irrimediabile frattura tra il
partito e la popolazione. Parallelamente il partito presentava una frattura
interna fra «stalinisti» e «riformisti». Questo disaccordo intestino — che
negli anni precedenti non aveva mancato di provocare purghe, processi-farsa
seguiti da arresti ed esecuzioni capitali, esilii e dimissioni più o meno
volontarie, il tutto nella migliore tradizione del socialismo reale — offrì una
occasione insperata a tutte le realtà anticomuniste ancora esistenti sia in
Patria che in esilio, quando l’ala riformista e moderata decise di forzare la
mano ai propri rivali stalinisti.
D’altro canto l’insurrezione non fu del tutto estemporanea ed inattesa come oggi
si vorrebbe far credere. Già nel 1953 si erano verificati scioperi e disordini,
e nel 1955 erano stati resi noti arresti ed esecuzioni di oppositori politici
organizzati in gruppi clandestini. La liberazione di un certo numero di
prigionieri politici e la propaganda dell’occidente favorirono ulteriormente il
coagularsi di un’opposizione più o meno clandestina, seppure tollerata dai
«revisionisti» in funzione antistalinista. E opportuno notare, inoltre, che i
gruppi più attivi e meglio organizzati nel preparare l’insurrezione erano del
tutto indipendenti dai rappresentanti degli ex partiti democratici liquidati
dallo stalinismo — che tentarono poi velleitaiiamente di gestire la rivolta.
Uno degli organizzatori di questi nuclei di opposizione, poi fuggito in
Occidente, Ferenc Aprily — già tenente dell’esercito e veterano del fronte
dell’Est — ha spiegato: «Noi non volevamo legarci a nessun singolo gruppo o
uomo politico, cosicché i combattimenti si svilupparono, per così dire,
semplicemente là dove sembrava via via necessario. Io ero consigliere e capo di
un gruppo di 35 combattenti.». (3) Naturalmente nuclei di questo tipo non
potevano pensare di abbattere il regime da soli, ma potevano sperare di
inserirsi nel movimento di protesta popolare per assumerne la guida,
trasformarlo in un vero movimento insurrezionale e condurlo poi alla presa del
potere. Una breve analisi degli avvenimenti del 23 Ottobre 1956 e tutta una
serie di testimonianze confermano che la rivoluzione ungherese fu il risultato
di un movimento di popolo animato da sentimenti nazionalisti, sfuggito ad ogni
tentativo di strumentalizzazione, e incanalato da una minoranza anticomunista,
estremamente decisa sulla strada dell’insurrezione nazionale.
La cronaca di quei giorni
Il 22 Ottobre, sull’onda del moto di protesta antistalinista e revisionista,
gli universitari, fiore all’occhiello del regime, costituiscono
un’organizzazione stu¬dentesca che, seppur formalmente marxista-leninista, è
indipendente dal partito. La neonata associazione decide subito di organizzare
una manifestazione per il giorno seguente.
Il 23 Ottobre alle 15, circa 15.000 persone sfilano per le vie di Budapest.
Sono per lo più studenti, ma a questi si uniscono intellettuali, centinaia di
ex-detenuti politici e migliaia di cittadini. Mano a mano che la folla cresce
di numero gli slogans «revisionisti» vengono sostituiti da quelli patriottici
ed antisovietici. Le bandiere nazionali prive dello stemma comunista sono
sempre più numerose. Alla fine della manifestazione, la folla — sono ormai
50.000 persone — anziché disperdersi punta minacciosa in direzione del
Parlamento, il corteo è ormai sfuggito al controllo degli organizzatori. I
patetici appelli alla calma dei comunisti restano inascoltati. A sera il
Parlamento è assediato da una folla di 200.000 persone che inveiscono contro il
comunismo e l’Unione Sovietica, il tentativo di Nagy di calmarli non ha
successo. Quando pronuncia il rituale «compagni» la folla urla:
«Noi siamo Ungheresi!». Dimostranti cominciano a raccogliersi davanti
all’edificio della radio. il discorso radiofonico di Gerò che esalta 1’ «unità
del partito per la democrazia socialista» e attacca «lo sciovinismo e
l’antisemitismo» esaspera ulteriormente la folla. Verso le ore 21 la situazione
precipita: «Apparvero segni di un’azione preordinata e disciplinata ... alcuni
drappelli si separarono dal corpo dei dimostranti e, molti sicuri e con chiara
idea su quello che c’era da fare, dove si doveva andare e come si dovevano
distribuire i compiti, un primo gruppo si diresse alla stazione radio; un
secondo, alla sede del quotidiano Szabad Nep; un terzo, alla centrale
telefonica; un quarto, un quinto e un sesto a un posto motoristico con 60
autocarri, a ... una fabbrica d’armi e a un deposito di munizioni». (4)
Per tutta la notte tra il 23 e il 24 Ottobre a Budapest infuriano i
combattimenti. I camion degli insorti trasportano armi e munizioni verso i
luoghi degli scontri o attràversano la città incitando alla ribellione e
raccogliendo nuovi volontari. I reparti militari ungheresi fatti affluire nella
capitale passano le armi ai rivoltosi o si schierano apertamente al loro
fianco. Praticamente, solo l’A.V.H. (la polizia politica) e unità della polizia
regolare restano dalla parte del regime. Al mattino, gli insorti dominano il centro
città mentre sono intervenuti nella bat¬taglia i primi reparti corazzati
sovietici.
Riassumendo: in poco più di sei ore una manifestazione che doveva essere
«comunista revisionista» si trasforma in insurrezione nazional-popolare contro
il comunismo’. Questo sarebbe stato impossibile senza sia pur piccoli gruppi
orga¬nizzati clandestini che, evidentemente, incarnavano le più profonde
aspirazioni del loro popolo. Ma quali erano queste aspirazioni? Nagy al potere?
E quanto-meno improbabile, dal momento che Nagy era stato nominato Primo
Ministro la stessa notte del 23 Ottobre senza che questo ponesse termine ai
combattimenti. Vediamo invece quali furono le «costanti» dell’azione
politico-militare degli in-sorti.
Innazi tutto, liquidazione del partito e della odiata A.V.H.: i massacri di
comunisti avvenuti in occasione dei combattimenti per la radio e in piazza
della Repubblica a Budapest sono solo i casi più noti, ma episodi simili si
verificarono durante tutta la rivoluzione in moltissimi altri centri minori e —
cosa più impor¬tante — avevano spesso un carattere di sistematicità.
Parallelamente, l’insurrezione ebbe un forte carattere antisemita. Al primi di
novembre la comunità ebraica di Vienna informava i rabbini di New York che
«sangue ebraico scorre in Ungheria per opera dei ribelli».(5) Un giornalista
americano si senti spiegare che «gli ebrei dovevano essere sterminati perché
avevano portato il comunismo in Ungheria» (6) mentre un corrispondente
israeliano lamentava la liberazione di prigionieri politici di tendenze
naziste, le scritte e gli slogans antiebraici e il clima di antisemitismo
prevalente tra gli insorti di Budapest. Secondo il Congresso mondiale ebraico,
si sarebbero registrati «eccessi an¬tisemiti» in più di 20 centri abitati al di
fuori di Budapest, a causa di «gruppi fascisti e antisemiti» tornati allo
scoperto con la crisi del regime comunista. Le inchieste condotte dagli
Americani tra gli Ungheresi riparati in Occidente rivelarono che
l’antisemitismo era un sentimento molto diffuso tra i rifugiati — fatto
ab¬bondantemente confermato dai giornalisti che ebbero modo di visitare i campi
profughi. Naturalmente, la storiografia comunista ha presentato queste azioni
come «pogrom», motivati da una sorta di odio isterico di massa, omettendo di precisare
che, nell’Ungheria del ‘56, sparare ai quadri comunisti e soprattutto agli
ufficiali della polizia politica voleva dire quasi necessariamente sparare su
ebrei.
Un altro punto fermo dell’insurrezione fu il sentimento nazionale col suo
corollario di antisovietismo: per tutto il periodo della rivolta gli insorti
attaccaro¬no le truppe sovietiche e chiesero il ritiro totale e immediato delle
forze di occupazione, la denuncia del Patto di Varsavia e la assunzione di una
posizione di neutralità da parte dell’Ungheria. Fecero la loro comparsa anche
slogans inneggianti al recupero dei territori irredenti e al rovesciamento di
tutto il sistema comunista; la parola d’ordine dell’insurrezione anticomunista
venne lanciata anche alle truppe sovietiche, e alcuni reparti di razza slava
passarono effettivamente agli insorti, tanto che il Comando sovietico, in vista
della «seconda ondata», preferì fare affluire in Ungheria unità composte da
Asiatici, più tetragoni a suggestioni di carattere ideologico ed emozionale.
È infine sorprendente che si passi oggi sotto silenzio il fatto che tra i
numerosi Comitati rivoluzionari sorti in tutto il Paese, molti non aderirono al
nuovo regime «democratico» di Nagy. Fin dall’inizio dell’insurrezione gli
insorti costi¬tuirono proprie organizzazioni politico-militari come
l’«Organizzazione dei Giovani Combattenti Ungheresi» e il «Nuovo governo
rivoluzionario e comitato di difesa nazionale», che erano indipendenti dai
partiti democratici ricostituiti in fretta e furia da vecchi politici
screditati. I diversi comitati rivoluzionari costrinsero Nagy alla cosiddetta
«svolta a destra» con la loro costante pressione politica (giornali e radio
libere fecero la loro comparsa fin dall’inizio) e soprattutto militare. Nagy
prima spedì in esilio i principali stalinisti, quindi, per non rischiare di
essere rovesciato, abolì il sistema unipartitico, costituendo governi con i
rappre¬sentanti dei vecchi partiti borghesi — governi che, ad ogni rimpasto,
risultavano essere sempre meno comunisti. Infine si decise — lui che era
firmatano della richiesta di intervento sovietico — a denunciare il Patto di
Varsavia e a proclamare la neutralità. È importante tener presente che,
nonostante Nagy si fosse trasformato m un Kerenski alla rovescia, gli insorti
non si accontentarono di questi cambiamenti, spingendosi su posizioni mano a
mano più radicali. Il «Consiglio Nazionak Tnansdanubiano» (rappresentante di
tutti i comitati rivoluzionari dell’Ovest) si trasformò in un vero governo
dell’Ungheria Occidentale in aperta sfida a quello di Nagy. Su posizioni simili
era il «Consiglio Nazionale Rivoluzionario» di Budapest. Anche i comitati
dell’Est diffidavano di Nagy, soprattutto quando si avvidero che, a dispetto
delle sue «trattative», i Sovietici non solo non si stavano ritirando come
promesso, ma facevano invece affluire rinforzi.
Un aspetto fondamentale della rivoluzione ungherese oggi deliberatamente
dimenticato dagli occidentali, che è stato invece paradossalmente ammesso da
parte comunista, fu l’apporto dato dai fascisti ungheresi — Croci Frecciate in
particolare — numerosi soprattutto tra gli esuli. Agence France presse riferiva
che «si conferma che nella Germania occidentale si apprestano febbrilmente
formazioni militari», legate alle «Croci Frecciate» e ad altri «ultranazionalisti».
Fin dal primo giorno ex militari dell’esercito fascista di Szalasy e Svevi
d’Ungheria di lingua tedesca lasciarono il campo profughi di Traunstein diretti
alla frontiera ungherese. ll 2 Novembre 1956, il giornale «Uj Hungaria» diffuso
tra gli Ungheresi in esilio in Occidente, annunciava che «battaglioni di
volontari» reclutati tra i fuoriusciti in Austria, Germania ed altri Paesi
europei erano «in viaggio verso l’Ungheria; forse hanno già passato la
frontiera». Anche un dirigente della già citata orga¬nizzazione paramilitare
M.H.B.K., costituita da ex militari dell’esercito di Szalasy, in un articolo
pubblicato su Szabad Magyansag (rivista di estrema destra degli Ungheresi
residenti negli U.S.A.) spiegò che un piccolo contingente dell’organizzazione
era riuscito a raggiungere l’Ungheria «a dispetto di tutti gli ostacoli e i
divieti» posti dagli Occidentali, precisando inoltre che «allo scoppio della
rivoluzione la nostra direzione cominciò a trattare, e noi eravamo pro nti per
ogni azione attiva» (7).
Non va dimenticato, peraltro, che un buon numero di «turisti» pare si fosse
infiltrato in Ungheria già nel periodo precedente la rivolta e che comunque nei
giorni della rivoluzione gran parte dell’Ungheria Occidentale era virtualmente
in mano agli insorti che controllavano tutta la frontiera con l’Austria.
Secondo fonti giornalistiche austriache, lungo la frontiera esistevano «centri
di comando ben stabiliti» costituiti da hortysti ed altri nazionalisti che
andavano ad ingrossare le fila degli insorti. Né va dimenticato il ruolo svolto
dalle radio trasmittenti che, dalla Germania e dall’Austria, contribuivano a
coordinare le azioni militari degli insorti. È impossibile stabilire quanti
esuli ungheresi riuscirono effettivamente a prendere parte alla rivolta:
secondo alcune fonti, circa 2.000 ungheresi armati avrebbero passato la
frontiera entro il 4 Novembre, mentre altre fonti parlano di «decine di
migliaia», anche se appare veramente difficile credere che tutti questi esuli
abbiano potuto effettivamente passare il confine prima dell’offensiva finale
sovietica. La presenza di questi volontari armati, comunque, qualunque ne fosse
il numero, contribuisce a spiegare il crescente radicalismo dei «comitati
rivoluzionari» dell’Ungheria occidentale e la loro inflessibile ostilità nei
confronti del nuovo governo demo-comunista di Nagy. A tutto questo si deve
aggiungere che migliaia di prigionieri politici erano stati liberati durante la
rivolta e che molti di questi erano militanti fascisti e hortysti — tra questi
figuravano anche ex-dirigenti delle Croci Frecciate come Mildos Serenyi e Odon
Malnasi, già responsabile del settore propaganda. In tale quadro va ricordata
la presenza di elementi come Antal Mayer, già volontario delle Waffen-SS
ungheresi e capo di un reparto di insorti a Budapest, e di noti hortysti a
Pecs, tradizonale feudo nazionalista che offri una resistenza particolarmente
accanita ai Sovietici in occasione dell’offensiva finale. Significativo fu
l’atteggiamento tenuto dall’aviazione che, almeno nelle intenzioni dei suoi
quadri dirigenti, si dimostrò molto più estremista dell’esercito, fino al punto
di richiamare in servizio aviatori veterani della 2a Guerra Mondiale e di
lanciare un ultimatum ai Sovietici nel momento in cui il Governo Nagy stava
«trattando» con i rappresentanti di Mosca.
Per quanto riguarda invece il personaggio Nagy — oggi esaltato congiuntamente
da democratici e comunisti come una sorta di «eroe nazionale» — molto ci
sarebbe da dire. Ci limitiamo qui a ricordare come Nagy fu, insieme, uomo «del
Sistema», capro espiatorio, e uomo «delle mezze misure». Fu uomo del sistema
quando mise la fedeltà al partito comunista al di sopra di ogni altra cosa,
alleandosi agli stalinisti e invocando con loro l’intervento sovietico per soffocare
sul nascere la rivoluzione nazionale. Fu invece capro espiatorio in quanto
obbligato a governare dagli stessi rivali stalinisti, consci che chi reggeva
l’Ungheria in quei giorni, anche solo nominalmente, non avrebbe potuto non
commettere errori — e per questi errori avrebbe poi dovuto pagare. Fu infine
l’uomo delle mez¬ze misure, che chiama i Sovietici e poi tratta con loro per
ottenerne il ritiro; che denuncia il Patto di Varsavia, ma impedisce ai reparti
ungheresi di organizzare una vera resistenza efficiente e coordinata su tutto
il territorio nazionale; che tenta di far deporre le armi agli insorti ma cede
ogni volta che questi avanzano richieste più oltranziste. In sostanza, una
mezza figura in balia degli eventi, parzialmente nobilitata solo più tardi con
l’atteggiamento tenuto dopo l’arresto.
Ben altri furono gli eroi della nazione magiara in quei giorni. Eroi furono gli
insorti comandati dal giovane frate francescano Basil Vegvari che, arroccati
sulla collina del Castello di Buda e armati con bombe molotov e armi leggere,
respinsero ogni intimazione di tesa e resistettero fino al 7 Novembre agli
attacchi dei carri e ai bombardamenti dell’artiglieria e dell’aviazione. Eroi
furono quei combattenti che continuarono la guerriglia anche dopo che la rivoluzione
era stata soffocata; e i ragazzini che, armati di molotov e taniche di benzina,
incendiavano i carri sovietici per le vie di Budapest. Eroi furono persino quei
soldati dell’Armata Rossa — per lo più Ucraini — passati agli insorti in una
lotta senza speranza contro chi opprimeva anche la loro terra. Eroi furono
infine i disperati militanti dell’ora estrema, che dalle ultime radio in loro
possesso gridavano al mondo: «Noi stiamo per morire per l’Ungheria e per
l’Europa».
Se quanto detto finora già illumina a sufficienza una verità che la
storiografia ufficiale vuole invece tenere nel buio, la vena chiave di lettura
dei «fatti d’Ungheria» del ‘56, sta però in una precedente tragica pagina della
storia di questo popolo di coraggiosi: la difesa a oltranza di Budapest
assediata dall’Armata Rossa nell’ultimo inverno di guerra. Fu una pagina
scritta, a soli undici anni di distanza dagli stessi uomini e dalle stesse
donne che combattevano nelle stesse piazze e sugli stessi ponti, sparando dalle
stesse finestre e sugli stessi nemici. Una pagina che qui ci sentiamo in dovere
come storici e come uomini liberi, di rievocare per intero.
Budapest ‘44 - ‘45: l’olocausto di una città
Nei vent’anni e più della sua reggenza l’Ammiraglio Horty — pur riducendo a
zero la presenza comunista nel paese — aveva conservato all’Ungheria un regime
pluripartitico e parlamentare ed aveva sempre esercitato una dura repressione
nei confronti dei movimenti dichiaratamente fascisti, ed in particolare del
forte movimento nazionalsocialista delle Croci Frecciate: all’inizio del
conflitto, nel 1939, il loro capo Szalasy era infatti rinchiuso nelle carceri
del Regime. Quando però, nell’Ottobre del 1944 il Reggente Horty — che non
aveva mai cessato di mantenere sotterranei contatti con gli Angloamencam — sì
illuse di poter uscire dal conflitto, l’esercito ed il popolo magiari si
rifiutarono di seguirlo, raccogliendo invece con entusiasmo l’appello delle
Croci Frecciate di Szalasy che dettero vita in pochi giorni ad uno stato
nazionalsocialista e proclamarono la guerra ad oltranza. In breve furono
potenziate le Forze Armate con nuovi reparti, unità di èlite e milizie di
partito, mentre numerosissimi affluivano giovani e giovanissimi volontari. Da
quel momento l’Ungheria rappresentò uno dei pilastri della fortezza europea e
dell’ideale euro-fascista del Nuovo Ordine.
La guerra comunque infuriava già da tempo in terra magiara. Gli ultimi mesi del
1944 vedevano i Sovietici-Romeni avanzare lentamente nella pianura ungherese,
contrastati duramente dai magiaro-germanici. A Nord, la 1a Armata ungherese era
costrétta a ritirarsi in Slovacchia mentre, a metà Novembre, l’Armata Rossa
premeva ormai in direzione di Budapest. Quando però divenne chiaro che il
tentativo di conquistare la capitale magiara con un attacco frontale non
po¬teva aver successo, i Sovietici iniziarono una vasta manovra di
accerchiamento che si concluse tra il 13 Dicembre e la vigilia di Natale.
Gli Ungheresi avevano da tempo trasformato la loro capitale in una gigantesca
fortezza, presidiata da una consistente guarnigione magiaro-tedesca. La difesa
ad oltranza della città, oltre ad avere un ovvio significato morale, serviva a
negare al nemico il possesso di un nodo stradale di fondamentale importanza per
le sue future avanzate verso Occidente. Le forze concentrate a Budapest,
inoltre, minacciavano le retrovie nemiche, costringendo Sovietici e Romeni a
schierare numerose divisioni intorno alla città fortificata. Le forze magiare
che difendeva¬no la fortezza-Budapest comprendevano la ia Divisione Corazzata,
la 10a Divisione Mista, la 1 2 Divisione di Riserva, il Gruppo Billnitzer (4
battaglioni di artiglieria d’assalto e un battaglione di autoblindo), una
flottiglia fluviale, varie unità antiaeree nonchè reparti della milizia di
partito di Szalasy per un totale di almeno 33.000 uomini in armi. Tra le
divisioni nominalmente tedesche che presidiavano la città (39.000 uomini),
figuravano inoltre le Waffen-SS ungheresi della 22a Divisione «Maria Theresa».
In totale, circa 50.000 Ungheresi e 20.000 Ger¬manici.
In precedenza, anche la popolazione civile era stata mobilitata da Szalasy per
i lavori di fortificazione: le colline erano ora costellate di «tane di lupo»,
e tutta la città era disseminata di bunker, trincee, fortini, nidi di
mitragliatrici, campi minati, reticolati e sbarramenti anticarro; gli edifici
più robusti erano stati trasformati in capisaldi, e le gallerie della
metropolitana in rifugi antiaerei; in generale, ogni casa ed ogni strada
dovevano diventare centri di resistenza ed alcune posizioni in particolare —
come l’imponente Castello di Budapest, la Stazione Est, il Mercato dell’8a zona
ecc. — erano destinati ad essere difesi all’ultimo sangue, mentre le
imbarcazioni fluviali, armate di cannoni e pezzi antiaerei, proteggevano i ponti
tra Buda e Pest.
Per gli Ungheresi, la difesa a oltranza di Budapest rappresentò quel che
l’insurrezione di Varsavia era stata per la resistenza polacca: il momento più
tragico e più alto della volontà di lotta e dello spirito di sacrificio di una
Nazione in armi, un’epopea di lotta popolare animata da un coraggio fanatico e
disperato. «Quell’accozzaglia di reparti improvvisati e male istruiti si batté
eroicamente ... Ben presto gli assediati sentirono la deficienza di
vettovagliamento e di munizioni, che si tentò di attenuare con qualche
rifornimento a mezzo di paracadute ed aeroplani. La difesa, nonostante tutte le
difficoltà, fu ostinata: un esempio di eroismo fu costituito dalla lunga difesa
della Stazione Est, eseguita da poche unità tedesche ed un¬gheresi, composte in
gran parte da ragazzi quindicenni: tale resistenza costò in pochi giorni al
Maresciallo Mulino vski quattro divisioni». (8)
I Sovietici sottoposero la città-fortezza a pesanti bombardamenti aerei e di
artiglieria nel tentativo di ammorbidirne le difese: «Budapest è uno sterminato
desento di macerie, di case sventrate, di ciminiere mozze e annerite dagli
incendi, di strade sconvolte, di palazzi bruciati, di giardini arati dai colpi
dell’artiglieria: i lungofiume del Danubio sono spazzati ora dagli attacchi dei
cacciabombandieri ora dalfuoco concentrato delle katiusce». (9) Il 25% delle
case era ormai distrutto, oltre la metà dei civili viveva sottoterra in grotte,
cantine e gallerie della metropolitana, i telefoni avevano cessato di funzionare,
mancavano la luce e il gas, scarseggiavano persino il pane e l’acqua potabile,
ma, nonostante i continui assalti e bombardamenti, Budapest resisteva. I
Sovietici riuscirono a penetrare nella città, ma la ostinata resistenza dei
Magiaro-Germanici, le strade minate, ed il fuoco preciso dei giovani cecchini
delle Croci Frecciate rendevano l’avanzata lenta ed esasperante. Mentre
infuriavano i combattimenti lungo il perimetro difensivo, nuclei della
resistenza riuscirono ad organizzarsi e ad infiltrarsi nella città assediata
ffettuando attentati e azioni di sabotaggio. Questi piccoli nuclei, isolati e
braccati, si appoggiavano soprattutto sulla locale comunità ebraica (circa
95.000 persone, secondo alcune fonti) e questo provocò pogrom antisemiti da
parte della popolazione fino a che le autorità crocifrecciate non decisero di
mobilitare gli ebrei come lavoratori per opere di difesa.
La pressione sovietico-romena dall’esterno si faceva intanto sempre più forte,
e nella prima metà di Gennaio l’Armata Rossa riuscì, a prezzo di grandi
sacrifici e di altissime perdite, a conquistare i quartieri di Csepel e Ujpest
e la Stazione Est — dove particolarmente. accanita fu la resistenza dei
giovanissimi volontari delle Croci Frecciate. Persino uno storico marxista come
Herbert Aptheker ècostretto a riconoscere — seppure a denti stretti — il valorè
dei combattenti un¬gheresi a Budapest: «le truppe fasciste ungheresi sotto il
comando del sadico folle Szalasy, e a fianco di divisioni scelte dell’Armata
nazista, resistettero per 50 giorni all’attacco generale sferrato dall’Armata
Rossa: per quasi due mesi le forze fasciste riuscirono a mantenersi nella città
— una città di pià di un milione di abitanti, in¬vestita da una battaglia che
superò per durata e accanimento l’estrema resistenza di Hitler a Berlino.».
Contemporaneamente, altre forze dell’Asse, schierate a 30-40 Km a Ovest di
Budapest, tentavano con una serie di contrattacchi di rompere l’accerchiamento
nemico e di raggiungere la città assediata — obbiettivo mancato di poco il 1°
Gennaio 1945 — per riportare il fronte ungherese verso est. Tra queste unità
figuravano notevoli forze magiare della Honved, comprendenti una divisione
corazzata, una di cavalleria e tre di fanteria.
Nella città assediata, le unità della Honved si logoravano nel corso di feroci
combattimenti e, ormai decimate ed esauste, cominciavano a lasciare aprire
qualche falla nella difesa, tamponata sempre più spesso dai reparti della
milizia crocifrecciata e dalle SS ungheresi. Nella seconda metà di Gennaio,
sotto la soverchiante pressione dei Sovietico-Romeni, i difensori dovettero
evacuare la parte orientale della città: «Si ritirarono oltre il Danubio ad
Ofen (Buda) dove, alla fine, non tenevano che il Castello: la lotta non aveva
alcun senso, ma i soldati si difesero eroicamente fino all’ultima cartuccia”
(11)
Nel corso della battaglia si raggiunsero eccessi di autentica ferocia. I
parlamentari che proponevano la resa ai difensori vennero accolti a fucilate.
Gli assedianti, naturalmente, non furono da meno: per esempio, quando l’Albergo
Gellert, trasformato in ospedale, dovette arrendersi per aver esaurito i
viverj, i Sovietici appiccarono il fuoco all’edificio dopo averne accuratamente
cosparso i locali di benzina, bruciando vivi centinaia di feriti, medici ed
infermien.
L’ultima resistenza magiara si concentrò nel quartiere Gellertberg, e impegnò i
Sovietici per quasi tre settimane. Infine, l’11 Febbraio 1945, in una sortita
disperata, i difensori si gettarono verso ovest nel tentativo di sfondare il
cerchio d’assedio e di raggiungere le linee magiaro-tedesche. Circa 40.000 tra
militari e civili ungheresi e soldati tedesche si lanciarono ad ondate
successive contro le posizioni fortificate sovietico-romene, facendosi falciare
dall’artiglieria e dalla fanteria nemiche: solo 785 riuscirono a passare,
raggiungendo la salvezza al di là delle linee.
Tra le rovine di Budapest restavano a combattere solo poche unità, ormai
stremate, e circa 10.000 feriti. Il 12 Febbraio i Sovietici, scatenato un
pesante bombardamento d’artiglieria, lanciarono l’assalto finale, riuscendo a
concludere l’occupazione della città entro la mattina seguente.
Le truppe ungheresi, comunque, continuarono a battersi anche dopo la ca¬duta di
Budapest. La 2a Armata era stata sciolta ed i suoi reparti superstiti assegnati
alla 1a ed alla 3a Armata, od aggregati ad armate germaniche. La 1a Armata si
ritirò in Moravia, mentre la 3a tenne il campo nell’Ungheria nord-occidentale:
la «1a Divisione Ussari», in particolare, si sacrificò interamente. Ancora nel
Marzo 1945 i Tedesco-Magiari lanciarono un’ultima, disperata controffensiva e,
successivamente, difesero strenuamente l’Ungheria occidentale. Le forze magiare
non deposero le armi nemmeno dopo che l’Armata Rossa ebbe completato
l’occupazione dell’intera Ungheria. Il governo nazionalsocialista ungherese si
stabilì a Vienna, gli ultimi reparti aerei continuarono ad operare dalle basi
dell’Austria, mentre le superstiti divisioni magiare proseguirono la lotta sul
territorio del Reich fino alla fine della guerra — a Vienna, a Breslau, a
Kustrin, sull’Oder, e sul confine austrojugoslavo. Nell’Ungheria occupata,
infine, bande di Croci Freccia-te davano vita alla guerriglia.
Con l’occupazione sovietica, un’ondata di orrore si abbattè su tutto il Paese.
I crimini di guerra commessi allora contro il popoìo ungherese dall’Armata
Rossa costituiscono uno dei capitoli della Seconda Guerra Mondiale che la
storiografia ufficiale si rifiuta ancora di approfondire.
* * *
Questa dunque la verità sulla rivolta d’Ungheria del ‘56, sulle sue ragioni
storiche, sulle sue connotazioni ideologiche. Una verità che va testimoniata,
in omaggio all’orgoglio, alla nobiltà e all’eroismo del popoìo ungherese. Ma
anche una verità che va testimoniata a denuncia delle menzogne e dei silenzi di
una stampa, di una televisione, di una intera «cultura» che la maggior parte
della gente crede in buona fede, siano «libere» e «pluralistiche» e che invece
soffocano, strozzano e uccidono ogni giorno la verità. Quel che appare
veramente diabolico — diabolico in quanto umanamente «incredibile» — è non
tanto la capacità di distrorcere. i fatti, cioè di mentire, quanto quella di
raggiungere un accordo totale nel tacere i fatti. Difficile dire se la
decisione di seppellire un evento di cronaca o di storia sotto una coltre di
silenzio sia presa tacitamente da tutti — tutti insieme, senza una eccezione! —
o se essa sia piotata. Vogliamo qui dare un esempio — in omaggio ad un altro
eroico popolo europeo, quello croato — di questi incredibili «giochi di squadra»
della intera rete mondiale dei mass-media. il 26 febbraio 1986,
l’ottantasettenne Andrija Artukovic, già Ministro dello Stato croato durante
l’ultimo conflitto mondiale, è stato estradato dagli Stati Uniti in Jugoslavia
per esservi processato come «criminale di guerra» (e condannato a morte il 14
maggio). Del fatto fu dato sulla stampa d’ogni Paese ampio rilievo. Da allora,
in decine di Paesi del mondo, le comunità di esuli croati hanno inscenato
manifestazioni di protesta contro gli U.S.A. Nel corso di una di queste
manifestazioni, tenuta a Toronto in Canada da una folla di migliaia di Croati,
uno di essi, Marko Djukic, si cosparse gli abiti di benzina e si diede fuoco
davanti all’Ambasciata americana «per attrarre l’attenzione del mondo»
sull’iniquità di un processo che non può offrire alcuna garanzia di legalità e
di giustizia. Eroismo tragicamente inutile: non un solo grande quotidiano, non
una rivista di vasta tiratura, non un telegiornale che abbiano dato eco al suo
gesto drammatico e spettacolare. Non uno. Ricordiamo tutti le migliaia di
fotografie e di servizi su Jan Palach a Praga, o sui bonzi buddisti in Vietnam.
Ora, chi decide che Marko Djukic non deve, assolutamente, fare notizia, e gli
altri si? Che il suo gesto deve essere tenuto nascosto? Che la vita, che il
sacrificio supremo di un uomo che crede nel suo popoìo e nella sua libertà
contano meno di niente? Qualcuno che lo decide deve pur esser-vi. E tutti
quelli disposti ad obbedire, devono anche esservi. Bene, è questa la gente che
ci spezza ogni giorno sul gran tavolo della democrazia il pane della verità,
perchè se ne possa ingoiare solo la prevista razione. Ma la verità, o è tutta,
o non è. E senza conoscere la verità, come faranno mai gli uomini di questa
società «libera» a raggiungere opinioni e convinzioni proprie, cioè libere?
Senza conoscenza — come senza cultura — non può esservi libertà. Con buona pace
di Popper, e di tutti gli altri intellettuali servi interessati del sistema,
che in ossequio ai «Padroni» ci vengono a raccontare che questa società, è,
moralmente parlando, la migliore possibile. Una società che possiede la forza
di pianificare — senza una ribellione, senza una crisi di coscienza — il
«razionamento della verità» attraverso migliaia e migliaia di quotidiani,
riviste ed emittenti radiotelevisive, è una società mostruosa, immorale e
inumana.
Marzio Pisani
(1) David Irving – Ungheria 1956. La rivolta di
Budapest – Mondadori – Milano 1982, pag. 37. Per l’antisemitismo nell’Ungheria
del 1956 vedi tutto il IV° capitolo.
(2) Herbert Aptheker, La verità sull’Ungheria – Parenti Editore – Firenze 1958,
pag. 89.
(3) Herbert Aptheker, op. cit. pag. 382.
(4) Herbert Aptheker, op. cit. pag. 322.
(5) Herbert Aptheker, op. Cit. pag. 380.
(6) Herbert Aptheker, op. Cit. pag. 379.
(7) Per il coinvolgimento di Croci Frecciate, hortysti
e altri fuoriusciti vedi Herbert Aptheker, op. Cit. Cap. VIII° e IX°. Il testo
è fondamentale per conoscere la versione e l’interpretazione dei fatti di parte
comunista.
(8) Walter Hagen, La guerra delle spie, Garzanti Ed. –
Milano 1952 – pag. 253.
(9) Enzo Biagi, La seconda Guerra Mondiale una storia
di uomini, Gruppo Editoriale Fabbri – Pag. 2287.
(10) Herbert Aptheker, op. Cit. pag. 52. E’ degno di
note il fatto che I Sovietici stimarono le forze dei difensori (in realtà poco
più di 70.000) intorno ai 180-200.000 uomini.
(11) Walter Hagen, op. cit. – pag. 254.